di Gennaro Fiorentino

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Era proprio una fresca serata di autunno di cinquanta anni fa quando, sceso dal diretto Roma-Ancona, misi piede nella graziosa cittadina di Spoleto. Passato il primo attimo di sbigottimento di fronte alla grandiosa scultura di ferro posta sul piazzale, mi avviai mestamente lungo il Viale Trento e Trieste. Dovevo arrivare alla non lontana caserma G. Garibaldi dove sarebbe iniziato per me un periodo in parte duro, che mi avrebbe arricchito però di tante esperienze umane anche se in un ambiente di severità e rigore. La comprensibile ansia che mi affliggeva non m’impedì di notare in un contesto buio e solitario, adiacente al viale che stavo percorrendo, quella che appariva come una stazioncina.

In pratica essa era proprio in asse con la caserma che mi avrebbe ospitato. Vi sostavano alcune elettromotrici che mi sembrò non se la passassero tanto bene. Vi lessi la scritta “Ferrovia Spoleto Norcia”. E per me fu una scoperta. Nei giorni e nei mesi che seguirono ebbi tempo per approfondire. All’epoca in verità non sapevo molto di ferrovie, pur essendo animato da una passione latente ed inappagata. I miei successivi sopralluoghi mi diedero la percezione di un ammalato che stesse vivendo una lenta, ma inesorabile agonia. Feci anche qualche programmino per farci un viaggetto verso Norcia. Magari di domenica quando una più lunga e noiosa libera uscita, me ne avrebbe dato opportunità. Ma che vuoi: da un lato, nei giorni festivi il già scheletrico orario era ancor di più ridotto e poi il regolamento… Già, il regolamento della scuola militare che ci vietava di uscire fuori presidio e finanche posare i tacchi sul primo binario della stazione FS. Lasciai Spoleto senza rimpianti ai primi di marzo 1968. Qualche mese dopo anche la ferrovia Spoleto-Norcia si omologò a chi scrive. Ma non si trattò di spostamento, al par mio, ma di congedo illimitato, giusto per parafrasare il gergo militare. A distanza di 50 anni, mi fa piacere ricordare quei giorni e quella ferrovia, oggi che mi ritengo un discreto conoscitore delle secondarie d’Italia. Certo, non si può dire che manchino scritti ed immagini su tale argomento, ma non mi sembra poi un gran peccato che scriva anch’io qualcosa in merito.

LA STORIA  

 

La Spoleto-Norcia fu inaugurata il 1° novembre 1926. La sua apertura gratificava le aspettative delle popolazioni delle località attraversate che, per questioni orografiche non disgiunte da quelle di una pessima viabilità, si ritenevano così liberate da un atavico isolamento.

La stazione di Spoleto il giorno dell’inaugurazione della ferrovia (da sito istituzionale).

A leggere la genesi del suo progetto, si scopre che il desiderio della sua realizzazione si manifestò sin dal 1909 sull’onda della tendenza alla costruzione di ferrovie di adduzione. Come fa intuire l’accezione del vocabolo, si trattava di rami ad impostazione economica (scartamento ridotto, binario unico, poche opere d’arte) che servivano territori scarsamente abitati verso linee ad alta frequentazione. In corso di progettazione questo obiettivo fu un po’ perso di vista per la mancata realizzazione della ferrovia Salaria (Ascoli Piceno-Antrodoco), ma in presenza, comunque, della Roma-Ancona e di tanti villaggi che comunque andavano raggiunti. Le difficoltà tuttavia offerte da un difficile contesto fatto di valli e monti convinse i suoi artefici a doversi affidare a chi le montagne sapeva domare con i binari ossia gli svizzeri. Così, il 31 agosto 1912 i comuni interessati firmarono una convenzione con la SSIF (Società Subalpina Imprese Ferroviarie) già realizzatrice della Vigezzina. Questa, a sua volta, ne affidò la progettazione all’ingegnere elvetico E. Thormann, papà della ferrovia del Lotschberg. Lo svizzero ricamò un piccolo capolavoro fatto di 19 tunnel, 24 ponti (alcuni arditissimi) e viadotti elicoidali. La direzione dei cantieri fu affidata all’ingegnere Paolo Basler, piemontese, che di quella ferrovia s’innamorò tant’è che ne fu anche direttore di esercizio fino al 1954. I lavori sarebbero stati ben più alacri, se non ci fosse stata di mezzo la I Guerra Mondiale che all’opera sottrasse uomini e risorse. Però, come dicevo all’inizio, il 6 novembre del 1926, la strada ferrata era in esercizio commerciale. Lunga circa 51 chilometri, essa partiva da Spoleto FS con uno scarno ed essenziale raccordo servito da un semplice marciapiede, provvidenziale ed antesignano interscambio. Dopo 600 metri si entrava nel piazzale di “Spoleto città” dove il Fabbricato Viaggiatori divideva la forcella tra piazzale e raccordo FS. Questo capolinea ospitava anche il deposito e le officine sociali. Quindi, la linea continuava a semplice binario per superare dopo circa 2500 metri il ponte monumentale del Cortaccione.

Il ponte monumentale del Cortaccione con un convoglio pesante formato:

da una motrice, due rimorchiate ed un carro merci (da cartolina coll. G. Fiorentino).

Ancora qualche chilometro e si perveniva a Caprareccia superando un elicoidale ed una pendenza al 45 per mille (stazione omonima e punto vetta). Qui, dopo il tunnel di valico ed un ardito viadotto, il tracciato incominciava a perdere quota a mezzo vari elicoidali. Questo gioco di opere d’arte le valse il lusinghiero appellativo di “Piccolo Gottardo”. Varie stazioni, dotate tutte di binario di incrocio, punteggiavano la linea fino a Serravalle-Cascia che avrebbe dovuto ospitare un ulteriore raccordo verso il Santuario di Santa Rita: mai realizzato. Infine dopo ulteriori 7 chilometri (52.250 metri dalla partenza) si arrivava a Norcia. Per lo scartamento fu scelto il 950 mm per economia, ma anche per una più agevole iscrizione nelle numerose curve. Per l’alimentazione invece si optò per il 2400/V cc.

Ponte della Caprareccia con evidenza dell’elicoidale (da cartolina coll. G. Fiorentino).

La stazione di Norcia terminal della linea (da cartolina coll. G. Fiorentino).

Il parco del materiale rotabile era di tutto rispetto considerando la lunghezza del tracciato. Parliamo di cinque elettromotrici (A1-A5) della Carminati & Toselli equipaggiate TIBB, otto rimorchiate (50-57), 10 carri chiusi e 15 aperti, vari veicoli di servizio. Dopo una partenza di esercizio per così dire un po’ esitante, la gestione prese un buon indirizzo sia per il movimento delle persone che delle merci. Il promettente sviluppo del traffico, fu tragicamente interrotto dalle vicende della II GM. Alla fine degli eventi bellici, pervasi da un rinnovato entusiasmo di ripresa, le elettromotrici furono avviate ad una concreta ricostruzione che ne modificò gli apparati ma anche conferì un più moderno aspetto. Ciò non potette interessare la macchina A5, che fu tenuta nella veste d’origine.

L’elettromotrice A2 ricostruita ripresa lungo l’itinerario, e ...

… e la ricostruita A4 ripresa all’ombra della Caprareccia (foto amatoriali coll. G. Fiorentino).

EPILOGO E FINE  

 

Debbo dire, purtroppo, che la fase di ricostruzione e ammodernamento post-bellica non solo interessò la “nostra” ferrovia, ma anche la viabilità regionale. La strada Spoleto-Norcia fu migliorata in maniera apprezzabile. La nuova rete viaria, unita con la produzione in serie delle cosiddette utilitarie, costituì causa ed effetto di quel fenomeno noto come motorizzazione di massa. Il trasporto su gomma, sia privato che pubblico, con lentezza ma senza pietà, incominciò ad erodere il traffico sulla Spoleto-Norcia. Nell’occasione del completamento della nuova strada, o come si diceva carrozzabile, il Ministero lanciò per così dire, un servizio parallelo al treno espletato con bus. Fu l’inizio della fine. Nel 1965 la vecchia società esercente lasciò e le subentrò il nuovo gestore “Società Spoletina per Imprese di Trasporti”. Dopo appena qualche anno, di fronte ad un’asfittica gestione e ad un concomitante sviluppo dell’autolinea su quel tracciato, il Ministro dei trasporti, Oscar Luigi Scalfaro, firmò il decreto di chiusura. Non si pensò per niente alla bellezza paesaggistica dei territori attraversati dai binari, non si pensò all’eco-compatibilità del treno, non ci si confrontò con le analoghe ferrovie di montagna; insomma si chiuse e basta. Non si contano i tentativi infruttuosi per riconsiderarne un rilancio. Ciò che invece il vostro cronista può citare è il riutilizzo di una parte del tracciato come pista ciclabile. Inoltre ricordo l’impiego del F V di Spoleto come Museo di ricordi ed oggettistica attinente alla ferrovia.

Il FV della stazione di Spoleto all’epoca dell’esercizio (da cartolina coll. G. Fiorentino).

Altri edifici e caselli sono stati concessi in affitto oppure destinati a finalità turistiche al servizio di un territorio che anche di turismo vive. Il materiale rotabile fu in gran parte demolito. Le sole elettromotrici ricostruite dopo la guerra (A1-A4) furono cedute alla ferrovia Genova-Casella dopo un piccolo adattamento dello scartamento: da 950 a 1000 mm.  

 
 
TEODELAPIO
 

Il singolare monumento posto sul piazzale della stazione di Spoleto FS è opera dello scultore americano Alexander Calder. Esso risale al 1962 e fu realizzato in occasione della V edizione del Festival dei due Mondi. Il suo singolare nome deriva dall’omonimo duca longobardo regnante a Spoleto (VII secolo) di cui ricorda, nel disegno, il bizzarro cimiero. In effetti, lo scultore si lasciò convincere alla sua realizzazione dal benemerito Giovanni Carandente, artista e critico d’arte.

Immagine del Teodelapio (da cartolina coll. G. Fiorentino).

Dopo varie proposte ed idee, si optò per una struttura fissa in acciaio. Essa, in pratica, fu costruita presso lo stabilimento Italsider di Savona basandosi su un modello originale ingrandito 27 volte. Per molti anni ha goduto del record di struttura scultorea stabile più alta del mondo. Le sue dimensioni, già di per sé ragguardevoli, sono incrementate da lastre di acciaio ancorate al suolo per conferirvi una perfetta stabilità. La sua realizzazione si dovette al grande fermento artistico che per molti anni ha accompagnato gli spettacoli teatrali prodotti per il festival estivo che voleva celebrare, con un ideale ponte, le arti visive tra il vecchio ed il nuovo, dal che il nome “dei due mondi”. All’epoca della sua messa in opera, l’evento viveva un momento di grande splendore anche grazie all’attività del suo ideatore e promotore Gian Carlo Menotti. Nel 2015 la scultura è stata sottoposta ad un’importante attività di restauro e si può dire che con la inconfondibile silhouette alta 18 metri, è oggi uno dei simboli della deliziosa cittadina umbra. 

 

 

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