Il FUMO, SUBDOLO COMPAGNO DI VIAGGIO

DI MACCHINISTI E FRENATORI NEGLI ANNI

DELLA TRAZIONE A VAPORE

La locomotiva 4551 R. A. esce avvolta dal fumo dalla Galleria dell'Appennino. Sulla destra il casotto, luogo di attesa dei macchinisti di soccorso.

di Maurizio Panconesi

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Traendo ispirazione dalla recente conferenza tenuta a Bologna dall’amico, Avvocato Barneschi, autore della meticolosa indagine sulla tragica ecatombe di Balvano costata la vita nel 1944 ad oltre 626 innocenti, desidero presentare agli Amici del “Clamfer” un breve ritratto di quanto rappresentò, per decenni, la presenza del fumo all’interno delle gallerie montane.

Se lungo una linea di pianura o con brevi e limitate pendenze, questa inscindibile conseguenza della trazione a vapore non era fonte di particolari problemi, effetti assai più deleteri e spesso drammatici comportava invece all’interno dei trafori percorsi in senso ascendente lungo linee di montagna dove, al considerevole sforzo delle motrici, si accompagnava spesso la saturazione da venefici gas emessi dai fumaioli delle locomotive che vi si accumulavano per i loro ripetuti passaggi: ancora vivo nello scrivente è il ricordo dei frequenti racconti fattimi dal nonno durante l’adolescenza, aventi per protagonista il di lui babbo – il bisnonno – macchinista a vapore lungo la Porrettana intorno al 1890.

A quell’epoca, un evento drammaticamente ricorrente erano infatti i malori per principi di asfissia da ossido di carbonio all’interno delle gallerie di questa linea, specie nell’ultimo tratto dove, nei trafori di maggior sviluppo, si accompagnava, dopo circa 25 km. di salita continuata, la semi ostruzione delle griglie del focolare provocata dalle scorie: questo inconveniente contribuiva a peggiorare ulteriormente la regolarità della marcia oltre ad incrementare l’emissione di gas velenosi all’interno dei tunnel.

Ed era proprio per tale motivo – così mi narrava il nonno – che il personale di macchina, ai primi sintomi dell’incipiente asfissia (un acuto dolore dietro le orecchie) bagnava del cascame di stracci e se lo poneva davanti a naso e bocca in guisa di maschera, cercando in tal modo di superare il tratto di galleria ove il fumo era più denso rendendo l’atmosfera irrespirabile.

Ma non sempre tale espediente era sufficiente, e spesso, negli ultimi anni dell’Ottocento con quasi triste regolarità – così aggiungeva il nonno nei suoi racconti - macchinista e fuochista finivano per perdere i sensi, cadendo svenuti sul pavimento della macchina; solo all’uscita dalla Galleria dell’Appennino, la più lunga della linea ed all’interno della quale quasi in modo ricorrente si verificava il fenomeno, era presente un sopralzo su cui attendevano due macchinisti pronti a saltare sulla locomotiva – che ormai procedeva a passo d’uomo senza più controllo – per infornare le ultime palate di carbone onde ridare nuovo vigore alla marcia e far uscire tutto il convoglio dal traforo.

I resoconti dell’epoca, rinvenuti dalle antiche relazioni di servizio dell’Adriatica che riportiamo nel testo, testimoniano di una situazione alla quale sembrava non poter essere data soluzione: vani infatti erano stati precedenti espedienti per dare sollievo al personale di condotta dei convogli, citati nell’ambito della pubblicazione dedicata a tale fenomeno da cui il testo presente è stato tratto; soltanto alcuni anni più tardi, intorno al 1894, si iniziò a sperimentare l’applicazione di uno dei primi ventilatori dell’Ingegner Saccardo, premente aria fresca contro i treni ascendenti nel tunnel, un espediente che fornì finalmente risultati positivi (a differenza degli inutili “pozzi di ventilazione” creati in precedenza) venendo poi esteso lungo la Porrettana anche ad altri due tunnel,  e quindi applicato alle gallerie di montagna di altre linee dal difficile esercizio.

Il problema del fumo non fu naturalmente, tuttavia, un problema solo italiano.

 

 

La stazione di Bagni della Porrettana nell' Ottocento,

vero fulcro all' epoca del traffico e delle comunicazioni ferroviarie tra Nord e Sud.

Oltre alla drammatica testimonianza che riporteremo più avanti del disastro accaduto nel 1898 sulla linea dei Giovi, ancora dopo trent’anni – era il 4 ottobre 1926 – la morte provocata dalla perdita di coscienza dovuta al fumo continuò a mietere vittime anche all’estero: fu l’eclatante caso, pur essendo ormai negli Anni Venti quando la trazione elettrica iniziava già a diffondersi, dell’incidente accaduto all’interno del tunnel di Ricken, in Svizzera, nel quale il personale di macchina al completo del treno merci n. 6.631 Kusnacht - Wattwill, oltre ai sei ferrovieri di scorta al convoglio, perì per asfissia da acido carbonico prodotto dalle locomotive all’interno del traforo; al triste bilancio, si dovettero aggiungere altri tre ferrovieri provenienti dalla stazione di Zurigo, che persero anch’essi la vita nel generoso quanto vano tentativo di portare aiuto ai colleghi.

Ma veniamo ora al disastro che restò a lungo negli annali ferroviari per le incredibili modalità con cui ebbe a verificarsi: esso ebbe luogo lungo la linea dei Giovi, la ferrovia di montagna a quell’epoca più importante d’Italia mettendo in collegamento Torino con Genova, una linea che, per importanza ed epoca di realizzazione, potremmo definire come la “madre” di tutte le linee di valico italiane.

Ma prima di passare alla descrizione del fatto, desideriamo fare una breve premessa.

Gran parte degli incidenti mortali in galleria provocati dal fumo, furono aggravati dalla presenza della doppia trazione simmetrica (una macchina in testa ed una in coda al convoglio); così fu infatti sia per il disastro dei Giovi del 1898, che per quello di Balvano del 1944 e di Balbano, avvenuto con identiche modalità in Toscana nello stesso anno: l’impossibilità di raggiungere un’intesa ed un coordinamento tra le manovre da eseguire sulle due locomotive, in un momento di estrema tensione come l’inizio dello slittamento del convoglio nella galleria satura di fumo, fu sempre all’origine delle scelte – spesso opposte, probabilmente dettate dalla concitazione – che contribuirono ad arrestare definitivamente il treno nel tunnel, decretando inesorabilmente la fine del personale e degli eventuali viaggiatori.

In sostanza, un provvedimento adottato per la maggior sicurezza della marcia, si rivelò all’opposto controproducente, divenendo una delle cause – se non la principale – del conseguente incidente.

 

 

Una rara immagine del disastro accaduto presso la stazione del Piano Orizzontale dei Giovi l' 11 agosto 1898.

Le due macchine interessate all'incidente erano la "Gerione" e la "Titano".

Nella collisione persero la vita insieme ai due macchinisti altri 4 ferrovieri e 6 viaggiatori.

(coll. G. Venturi, Prato)

L’11 agosto 1898, all’interno della vecchia Galleria dei Giovi, una prolungata sosta di un convoglio merci in doppia trazione con locomotiva di spinta in coda, aveva provocato la rapida saturazione del tunnel causando la perdita di conoscenza da parte del personale di condotta del treno: il convoglio, senza più controllo, aveva iniziato a retrocedere finendo per investire un treno viaggiatori in sosta al Piano Orizzontale.

Il bilancio dell’incidente era stato di 12 morti e diverse decine di feriti.

Il disastro fu causato “dall’accompagnamento del fumo”, cioè dal fenomeno creato dalla corrente naturale che seguiva costantemente il treno nel suo stentato procedere all’interno della galleria causa i frequenti slittamenti: la sua costante persistenza nelle cabine di guida aveva decretato la perdita dei sensi dei macchinisti.

Proprio a seguito di ciò, sul finire del 1898, si procedette all’installazione dei ventilatori Saccardo, dapprima nella vecchia galleria e, poco dopo, anche in quella di Ronco.

La vecchia Galleria dei Giovi, avente una sezione interna di 40 mq (quasi doppia quindi rispetto alle strette gallerie della Porrettana a binario unico) era stata dotata di 4 pozzi di ventilazione profondi tra gli 11 ed i 116 metri; analogamente, la Galleria di Ronco, disponeva di ben 7 pozzi di aerazione, due dei quali inclinati definiti “le finestre di Busalla“.

Il problema del fumo si presentò con modalità leggermente differenti rispetto a quanto riscontrato sulla Porrettana: sui Giovi infatti, per entrambe le gallerie, si trattava di tunnel a doppio binario dove quindi – almeno in teoria – il problema avrebbe dovuto presentarsi con entità più limitate.

Anche su queste linee, l’ausilio fornito dai pozzi allo smaltimento del fumo si rivelò praticamente irrilevante, se non controproducente come sulla Bologna – Pistoia.

La scarsità di aerazione dei trafori, la deposizione di una patina viscida di fumo misto a vapore sulle rotaie, il conseguente slittamento delle locomotive con ulteriore produzione di fumo e vapore e conseguente aggravio della situazione, la diminuzione della velocità dei convogli con una più lunga permanenza all’interno delle gallerie … contribuivano ad aggravare un fenomeno che diveniva, anno dopo anno , sempre più allarmante per la sicurezza e regolarità del traffico.

All’interno della vecchia Galleria dei Giovi ad esempio, i treni merci in tripla trazione transitavano con una velocità media di 5 metri al secondo (18 chilometri orari): ciascuna locomotiva vi bruciava all’interno 300 gr. di carbone al secondo.

L’aggravarsi del fenomeno fu motivo di uno studio, ordinato dal Governo e condotto in la collaborazione con la Società Mediterranea, atto a chiarire le cause, le modalità ed eventualmente i rimedi da adottare per far fronte al grave inconveniente: per questo, nel giugno 1899, sotto la guida del Professor Ugolino Mosso dell’Università di Genova (2), vennero eseguite nella stazione di Ronco una prima serie di esperimenti su macchinisti e fuochisti della Rete Mediterranea diretti a verificare l’influenza di gas tossici, dell’alta temperatura e del fumo sulla funzione visiva degli agenti.

 

 

Il primo ventilatore Saccardo di Pracchia azionato nel 1894 da una vecchia locomotiva dismessa.

 

 

Piteccio - schema del ventilatore Saccardo del 1901.

L'imbocco lato Piteccio dell'omonima galleria con i nuovi

impianti di ventilazione. Anno 1901.

 

Una fase della costruzione del primo ventilatore provvisorio Saccardo a Pracchia nella primavera del 1894.

 

Parte di queste esperienze furono effettuate su personale appena reduce da un servizio prolungato lungo la Galleria di Ronco, al termine di dieci ore di servizio continuato e notturno sul tratto S.Pier D’Arena – Ronco Scrivia, ripetendo poi le misurazione sullo stesso personale dopo il riposo nel Deposito di Rivarolo: i risultati furono negativi, nel senso che gli agenti, pur con parecchie ore di lavoro sulle spalle, furono trovati ancora con una funzione visiva in perfetto stato.

Il Professor Mosso, durante le sue indagini, verificò che i casi di asfissia verificatisi tra il personale nelle due gallerie dei Giovi erano stati in verità assai più numerosi di quelli portati a conoscenza dalla stampa dell’epoca: infatti, anche in precedenti occasioni, erano avvenuti gravi malori tra gli agenti come nel corso delle giornate del 6 e 26 marzo, 9 e 17 luglio, 7 ed 11 agosto 1898; anche nei giorni successivi al disastro del Piano Orizzontale, continuarono a ripetersi i malori anche se non furono portati a conoscenza dell’opinione pubblica a motivo, fortunatamente, delle loro mancate, funeste conseguenze.

In particolare, venne rilevata la pericolosità della Galleria di Busalla, sia per l’elevata pendenza sia per lo sfavorevole orientamento rispetto ai venti dominanti; in questo, l’assai più lunga Galleria di Ronco (con valori però della pendenza praticamente dimezzati) si era rivelata di assai minor pericolosità.

Suggestiva ma purtroppo assai realistica delle difficilissime condizioni in cui operavano macchinisti, fuochisti e frenatori all’interno delle gallerie, resta oggi la descrizione dell’illustre studioso il quale volle coraggiosamente viaggiare di persona più volte, in quell’estate del 1899, all’interno delle cabine delle locomotive, di fianco ai macchinisti in servizio lungo il valico dei Giovi…onde vivere direttamente l’esperienza del viaggio all’interno di tunnel saturi di fumo: 

Le condizioni del respiro peggiorano quando il treno, per l’eccessivo peso e per l’umidità, slitti e le macchine facciano il maggiore sforzo. Se poi le locomotive si fermano, o se viene attivato il fuoco, l’ossigeno dell’aria si consuma ancor più rapidamente. Talora capita che non vi sia corrente d’aria nella galleria o che la velocità e la direzione della corrente sia la medesima del treno. Questo è il caso più grave: i macchinisti restano costantemente avvolti in un’atmosfera che si va sempre più deteriorando perché l’aria che attraversa il focolare esce dal camino corrotta, avvolge i macchinisti per passare nuovamente nel focolare arricchendosi di ossido di carbonio ed acido carbonico (…) ma bisogna essersi trovati sul tender in galleria, come capitò a noi parecchie volte nel corso di questi studi, quando la macchina slitta, per comprendere quali pericoli allora sovrastino, e quanto possano diventare tristi le condizioni del personale che si trova sulle macchine.

L’aria esce tanto calda dal fumaiolo, che questo si arroventa (!) e prende un color rosso vivo.

L’aria, quando esce dal camino, contiene appena il 4% di ossigeno ed il 3% di ossido di carbonio (3). E’ dunque un’aria avvelenata e quasi priva di ossigeno, che dopo aver toccato la volta si rovescia sul macchinista e sul fuochista, e li avvolge… asfissiandoli.

Il fatto che spesso si spenga il lume che serve per leggere sul manometro la pressione del vapore nella caldaia, basta di per se solo a dimostrare quanto divenga, in alcuni momenti, irrespirabile l’aria dei tunnels. E questa sola circostanza può spiegarci l’emozione profonda e la depressione dell’animo che simili accidenti producono nel personale di macchina.

Ho parlato con molti macchinisti, fuochisti e frenatori i quali soffrono di “caldane” quando il vento non spirava favorevolmente, od il carbone era cattivo come essi dicono: col nome “caldana” si comprendono i fenomeni caratteristici del primo periodo dell’avvelenamento quando, per azione dell’ossido di carbonio, aumenta la frequenza dei battiti cardiaci ed il sangue circola più attivamente nel cervello e nella pelle della faccia (…) le tempie battono e si sente un’impressione di calore al volto, un bisogno imperioso di respirare ed un senso di oppressione che pare di soffocare; alla caldana può accompagnarsi la nausea ed il sudore abbondante, qualche volta si intorbida la vista e si annebbia l’intelligenza.

Più tardi, i muscoli non sorreggono più il corpo, e la persona cade priva di conoscenza.

Tra i fenomeni più comuni che provano gli impiegati delle ferrovie nei treni che attraversano i tunnels devesi ricordare il male di capo, il senso di nausea e la spossatezza muscolare che diviene più intensa quando essi devono compiere un lavoro faticoso. (4)

In molte gallerie dove sono più frequenti i casi di asfissia è ora applicato il ventilatore Saccardo e le condizioni sono notevolmente migliorate: gli effetti più notevoli della ventilazione artificiale furono la scomparsa dei densi vortici di fumo soffocante che investivano i terrazzini delle locomotive di coda e le garitte dei guardiafreni situate nelle ultime vetture, lo stato relativamente asciutto dell’aria, l’assenza di fumo carico di fuliggine ed il cessare degli slittamenti delle locomotive.

Oltre ai casi di avvelenamento acuto, si possono osservare nel personale addetto ai tunnels anche quelli dell’avvelenamento cronico (…) specialmente tra gli operai della manutenzione, i quali rimangono ogni giorno tra le 4 e le 5 ore nella galleria, e nei guardiani che vi rimangono 8 ore quando è attivato il movimento dei treni; soffrono sovente di male di capo, perdono l’appetito, divengono pallidi, magri, deboli.

Molti devono essere sostituiti dopo alcuni mesi, alcuni dopo un anno o due, altri continuano il loro servizio per molti anni senza apparente malessere: non è facile trovare la ragione di questa diversa suscettibilità all’infuori di una costituzione più o meno robusta.

Tra i vari casi di asfissia succeduti nelle gallerie dei Giovi, riferirò quello più noto del giorno 11 agosto 1898.

A governare la macchina “Gerione“ del treno merci n. 3.182, stava il macchinista Bruschelli.

All’ingresso della galleria di Busalla, il treno aveva una velocità normale, poi questa scemò.

Il macchinista sentì che il treno “pesava“e, dalla macchina di coda, partì il fischio d’avviso che c’era qualcosa di anormale.

Fu fermato il treno per 15 minuti, per aumentare la pressione alla macchina di coda che slittava; poi, anziché tagliare in due il treno, come vuole il regolamento in simili casi, si preferì riprendere la corsa.

Ma il treno era “duro“ e si muoveva a stento.

A 250 metri dallo sbocco nord, il fuochista cadde svenuto sul carbone del tender; allora il macchinista, senza potersene occupare, diede il massimo sforzo alla macchina ed alimentò un poco il focolare; ma il treno camminò lento lento, finché si trovò allo sbocco di Busalla.

Già la macchina e due vagoni erano fuori dalla galleria ancora in salita, ma il treno rallentava ancora.

Bruschelli fischiò ai frenatori, che non risposero: poi il treno si fermò, ma tosto, obbedendo al proprio peso, cominciò a retrocedere: fece nuovi richiami ai frenatori, ma invano.

Chiuse il freno del tender, aprì la cassa della sabbia sperando che nella discesa i suoi colleghi tornassero in se, e l’aiutassero.

Continuò ancora a dare il fischio d’allarme.

Il macchinista Cardellino della locomotiva di coda “Titano“ era in condizioni sfavorevoli: svenuto, non poté regolare la macchina che fu abbandonata a se stessa.

Bruschelli aveva ormai la coscienza del disastro che l’attendeva: fuori dalla galleria, quelli del personale, davanti a cui passava nella sua vertiginosa discesa, gli dicevano: “Buttati giù, che gli altri sono stesi sulla macchina!“ ma egli non abbandonò il fischio ed il regolatore della contropressione, diminuendo così la violenza dell’urto.

Nel momento dello scontro, fu lanciato in aria e cadde sul tender addosso al suo fuochista.

Al Piano Orizzontale, un treno viaggiatori aspettava da mezz’ora il via libera.

Verso le ore 19,30, si vide qualcuno del personale che fuggiva: si sentì un enorme fragore, ed un gran colpo che ridusse in frantumi i vagoni.

Fra i rottami dei treni si trovarono molti viaggiatori feriti: ne morirono 12, fra cui 6 ferrovieri.

Finché il treno non si fermò sotto la galleria, tutti i macchinisti, fuochisti e frenatori stavano bene ed erano rimasti al loro posto; ma dopo incominciarono le asfissie che ne misero molti fuori servizio.

Le cause del disastro sono strettamente legate al peso eccessivo del treno, al movimento molto intenso sotto la galleria nelle ore precedenti, alla lunghezza della galleria (3.258 mt.), ma più specialmente alla sua pendenza che è la maggiore nelle gallerie della Rete.

 

Non parendomi sufficienti le osservazioni raccolte intorno ai casi di asfissia nei tunnels dei Giovi, volli fare delle esperienze dirette sopra me stesso ed altre persone.

Mi recai nella grande Galleria di Ronco; nell’altra di Busalla era da poco in funzione il ventilatore Saccardo.

Vi giunsi discendendo la scala di 284 metri che dalle Finestre di Busalla mette in galleria verso la metà, cioè a 4.360 metri dall’imbocco sud della medesima; dirimpetto alla scala, dall’altra parte della galleria, vi è una stanza dove mi installai per le mie esperienze: essa è occupata dai guardiani e serve di deposito per gli attrezzi oltre che da magazzino del petrolio per l’illuminazione della galleria.

Vicino alla porta della scala l’aria è buona, si sente fresco, ma nella stanza attigua l’effetto benefico si fa poco sentire: fa caldo, ristagna il fumo, la puzza di petrolio è grande. (5)

Il giorno 11 aprile 1899 vi arrivai alle ore 14,45.

Tutti i giorni, per quattro o cinque ore di seguito, non passano treni sotto la galleria essendo questo tempo riservato al servizio della manutenzione per verificare e riparare le rotaie. (6)

Passò prima un treno discendente alle 17,12: i treni discendenti non guastano l’aria della galleria perché sono mossi dal proprio peso.

I treni ascendenti invece, oltre ad essere più numerosi, sono a doppia trazione, una macchina in testa ed una in coda al treno.

In quattro ore e diciannove minuti passano nella galleria 10 treni ascendenti e 7 discendenti. Esco dalle galleria alle ore 22,10 dopo esservi rimasto per più di sette ore: ho mal di capo, salgo con difficoltà la scala, devo riposarmi quattro volte.

Una volta all’esterno, mi sento fiacco, soffro di nausee; a casa, a Genova, vomito parecchie volte, mai mi sono sentito così male ed affranto. La mia temperatura è di 38°,2; alle quattro del mattino successivo continuo a star male, soffro ancora di cefalee e nausee… ”.

    Se questi furono gli effetti per una permanenza sporadica di solo sette ore in galleria da parte di un organismo sano … pensiamo cosa dovevano sopportare gli uomini in servizio a bordo dei mezzi che la percorrevano più volte a giorno svolgendo per di più un’attività fisica intensa, senza momenti di sosta, come nel caso particolare dei fuochisti! (7)

 

 

Porrettana. Il pozzo che ancora fuma ... al passaggio

dei treni 223 mt. più sotto.

 Il pozzo di ventilazione della Galleria di Pian di Casale ancora

con la sua griglia alla sommità.

 

Nell’ambito di tali esperienze, due altri medici, i dottori Benedicenti e Wehmeyer, in un giorno del luglio 1899, vollero percorrere anch’essi a piedi la Grande Galleria da Ronco Scrivia a Mignanego, salendo poi nel ritorno a bordo della cabina della locomotiva di spinta di un treno materiali ascendente: il convoglio aveva percorso appena due chilometri quando iniziò a slittare in modo accentuato, procedendo sempre più lentamente all’interno del tunnel.

    La pressione della caldaia cominciò a scendere paurosamente, portandosi dalle 8 atmosfere iniziali a sole 4: la galleria si riempì di fumo e la temperatura nella cabina della macchina raggiunse i 51°!

    Nonostante la criticità del momento, i due medici continuarono ad effettuare le loro misurazioni: il polso di uno di loro crebbe da 82 a 96 battiti al minuto, mentre la misurazione dell’ossido di carbonio diede un valore pari all’1,2 %; usciti finalmente all’aperto, i funzionari si ritrovarono fradici di sudore, mentre il macchinista confermò loro che la galleria si trovava in uno dei suoi “brutti momenti”.

    Il dottor Benedicenti stesso, poco dopo, venne colto da forti nausee e da una martellante cefalea che l’obbligarono a coricarsi; fu misurata la sua temperatura corporea: raggiungeva i 40,3°!

    Il sintomo infatti più evidente provocato dall’ossido di carbonio sul cervello, era dato dall’insorgere dell’emicrania che poteva toccare livelli anche di intensissimo dolore, con influenze sul senso dell’equilibrio e sulla prontezza mentale di coscienza, come vedremo più oltre.

   Questi sintomi furono provati da tutti coloro che, in quei giorni, effettuarono tali esperienze, in particolar modo dopo aver percorso a piedi dei tratti di galleria saturi di fumo denso, accompagnato da un’atmosfera calda e umida per il passaggio di più treni in senso ascendente; uno di tali medici rilevò poi di non essere neppure riuscito a chiamare il guardiano che lo precedeva, non riuscendo più a rammentarne il nome nonostante l’avesse in precedenza chiamato tante volte; neanche lo stesso cantoniere ricordava più i nomi dei colleghi di lavoro con cui aveva condiviso già parecchi anni di servizio…

    Ma lasciamo che siano ancora le parole di allora, di quel resoconto di oltre un secolo fa, a descriverci quale fosse la condizione (e l’angoscioso senso di solitudine ed isolamento) in cui venivano a trovarsi coloro che in quegli anni lavoravano in galleria con l’incombente presenza del fumo: una sensazione oggi impossibile da provare, ma che le parole di allora ci consentono di rivivere in tutti i suoi aspetti.

    “ …Lo studio della visione e dell’udito nei tunnels è una cosa importante, che meriterebbe uno studio speciale non solo per le condizioni fisiche tanto differenti da quelle dell’ambiente esterno, ma anche per la rapidità grande colla quale appaiono e scompaiono nelle gallerie buie e piene di fumo i fenomeni luminosi ed acustici.

    Forse fu la causa della diminuita acutezza uditiva, se poco mancò che non ci incogliesse una disgrazia. Avevamo incominciata la seconda esperienza e ripreso il cammino nella direzione dei treni discendenti; l’atmosfera era calda e afosa, camminavamo uno dietro l’altro, ma era così fitto il fumo che io non vedevo la lanterna del guardiano che mi precedeva ad un passo di distanza. Gli dicevo di aspettarmi … e l’avevo davanti!

   Sapevamo che i treni ascendenti impiegavano ad attraversare la galleria non meno di 11 minuti quelli viaggiatori, e non meno di 24 i treni merci; e che perciò si succedevano con quell’intervallo di tempo. Ci trovavamo a camminare sulla banchina dei treni ascendenti. Di quando in quando ci arrestavamo per vedere in quale direzione si muoveva l’aria in galleria: bastava a questo scopo osservare il fumo che passava dinanzi alla lanterna.

   Un treno che percorra la galleria spinge innanzi a sé l’aria, come uno stantuffo. Ci accorgevamo della presenza e della direzione di un treno, dalla velocità con cui il fumo passava davanti ai vetri della lanterna, sebbene il treno fosse ancora così distante da non sentire il più piccolo rumore. .( …angosciante! – NdR.)

    Non so da quale legge acustica dipenda il fatto che nelle gallerie i treni in moto non si sentono che quando sono vicinissimi, mentre fuori all’aperto si sentono a grandissima distanza.

    Era salito un treno merci da poco; volevamo aspettare in una nicchia il passaggio del successivo. Ogni cinquanta metri, dalla stessa parte della galleria, era scavata nel muro una nicchia; ad ognuna di esse ci fermavamo per sentire se il treno arrivava.

    Era così fitto il fumo che i fanali non si sarebbero veduti. Avevamo fatto una trentina di passi, quando sentimmo il treno: “Affrettiamoci” dice il guardiano; ma dopo alcuni passi di corsa, ecco che ci è sopra il treno; “…Passiamo dall’altra parte” grida Cardetti.

    Varchiamo il binario, e subito ci passa rasente la macchina: fu un momento di trepidazione e di sgomento. Passato oltre il treno, abbiamo voluto ritornare sulla banchina di prima, ma avevamo sbagliato direzione.

    M’accorsi dell’errore dalla mia lanterna, che prima era verso il vano ed ora era verso il muro, senza aver mutato di mano; non si persuase dello sbaglio il mio compagno, finché non verificò sul muro i numeri delle distanze. Attraversammo quindi questa volta la galleria, ciò che a tutti e due era parso di aver fatto appena passato il treno.

   Un fenomeno frequente nell’avvelenamento per ossido di carbonio, sono infatti le vertigini, e questo, mi fu detto dal personale delle macchine e dai frenatori, è il fenomeno più pericoloso delle caldane. Compare inoltre debolezza nelle gambe che diventano incapaci a reggere il corpo”.

Anche altre linee montane furono afflitte naturalmente dagli stessi problemi legati al fumo: infatti, già nel corso del viaggio inaugurale sulla nuova linea del Frejus, effettuato il 20 settembre 1870, i giornalisti invitati alla solenne apertura, a bordo di una delle ventidue carrozze che costituivano il treno speciale, poterono constatare non senza apprensione, fin dall’attraversamento della lunga Galleria di Meana…” Entrati nella galleria di Meana senza badarsi di chiudere i finestrini, il fumo della locomotiva invase la carrozza e ci punì della nostra sbadataggine. Il lume del gaz, acceso a Bussoleno, era impallidito così che appena lasciava scorgere l’ombra delle nostre persone insieme ad una tosse molesta. L’inconveniente del fumo che si prova nelle gallerie che precedono l’immane cunicolo del Frejus è però un inconveniente al quale si potrà senza dubbio ostare e che intanto si vince usando la precauzione di chiudere i vetri”.(8)

Con l’apertura all’esercizio della linea, i problemi andarono naturalmente aumentando tanto che, nel 1880, il fumo costituiva ormai il motivo di maggior preoccupazione per la Società che in quel tempo gestiva la linea, l’Alta Italia; nelle “Memorie” dell’Ingegner Francesco Kossuth edite in quell’anno (9), traspare infatti tutta l’apprensione per un fenomeno per il quale, a quegli anni, ancora non si intravedeva una pratica soluzione: “ ...La ventilazione della grande Galleria del Frejus è insufficiente al segno da ispirare serie preoccupazioni, tanto all’amministrazione ferroviaria, quanto al pubblico: non sono rari i casi in cui una incipiente asfissia colga il personale viaggiante e quello addetto alla manutenzione”.

Un’altra testimonianza di pochi anni più tardi, risalente al 1901, confermava come il fenomeno non fosse scomparso ma si fosse anzi acuito in modo preoccupante: “ ... Il Tunnel del Frejus è tra i più disgraziati sotto questo aspetto. Esso presenta una discesa alle due estremità ed il fumo forma nella parte centrale più alta una densa nube permanente. Se il tempo è freddo e piovoso, la deficienza d’ossigeno nell’aria di questa regione è sensibilissima (…) I treni che giungono dalla Francia per una salita di uno per quaranta che è lunga 7 chilometri, quando siano accompagnati da una corrente d’aria nella stessa direzione, inducono uno stato di cose disastroso. Le macchine, e per la ripida salita e per il carico, procedono a regolatore tutto aperto e un’enorme massa di vapore e di fumo accompagna il treno…”. (10)

Anche il Traforo del Sempione venne interessato dagli inconvenienti legati al fumo seppur per il breve lasso di tempo intercorso tra il 19 maggio 1906, data dell’inaugurazione con trazione a vapore ed il 1°ottobre di quello stesso anno, giorno in cui ne venne inaugurato il definitivo esercizio a trazione trifase; a tale proposito, riportiamo le sintetiche ma realistiche impressioni riportate dal suo attraversamento a bordo di un treno a vapore da parte di una giovane turista inglese: “Questo è un Tunnel molto lungo dove noi passammo 25 minuti scomodi. Noi dovevamo avere tutti i nostri finestrini su: la sensazione fu di un caldo sempre più caldo sebbene realmente fosse solamente la mancanza di aria “.

Negli anni precedenti, anche per questa galleria si era ipotizzata l’installazione di un ventilatore Saccardo ma poi il progetto era stato rapidamente accantonato a motivo dell’intensità del traffico e del ruolo di estrema importanza del tunnel quale collegamento internazionale: per questo, il 1° giugno 1906, galleria e linea erano state elettrificate.

…Trascorsero gli anni ma restarono immutati i deleteri effetti che il fumo continuò a produrre!

E che, purtroppo, tale affermazione non fosse fuori luogo, lo si poté tristemente sperimentare anche in anni assai più vicini a noi, come nel caso dell’immane strage che ebbe luogo a bordo del treno n.8.017 all’interno della Galleria delle Armi, presso Balvano, avvenuta il 3 marzo 1944 e dove persero la vita ben 626 persone.(11)

Ma non sempre fatti tragici come quello di Balvano, seppur con una risonanza postuma, furono portati a conoscenza dell’opinione pubblica: un incidente causato pure dal fumo e che ebbe modalità simili per cause e svolgimento (seppur con un assai minor numero di vittime) rimasto praticamente sconosciuto fino ad oggi, fu quello che si verificò all’interno della Galleria dei Ceracci presso Balbano (veramente singolare la quasi omonimia dei nomi per disastri simili!) sulla linea Lucca – Viareggio.(12)

La galleria, della lunghezza di 1653 mt., aperta il 4 luglio 1884, consente di sottopassare il Monte Quiesa che separa la piana di Lucca dal litorale viareggino: essa presenta una pendenza media, su entrambi i versanti, dell’8,42 per mille con punte del 10 per mille per un’estesa di circa 1 Km. sul versante lucchese; l’intera linea da Lucca a Viareggio venne aperta il 24 dicembre 1890.

La Galleria in questione, pur non presentando pendenze né particolari asperità di tracciato, divenne teatro l’11 marzo 1944 di un triste fatto provocato da concomitanti circostanze che, sommando i loro effetti, condussero al disastro.

Il fatto accadde verso le 18 quando un treno merci proveniente da Viareggio, causa sia la pesante composizione dovuta all’ulteriore aggancio effettuato da parte dei tedeschi  di due carri stipati di munizioni, sia la pessima qualità del carbone jugoslavo assai ricco di zolfo e dallo scarso potere calorico, iniziò a slittare all’interno della Galleria dei Ceracci per poi arrestarsi del tutto proprio nella parte centrale del tunnel.

    Al brusco crollo della pressione in caldaia, già occorso ad altre locomotive che adottavano in quel periodo tale tipo di carbone ma di cui, probabilmente, i macchinisti non erano bene a conoscenza degli effetti, non era inoltre estraneo il recente mitragliamento aereo che la stessa locomotiva aveva dovuto subire da parte dell’aviazione alleata che aveva procurato leggeri danni alla caldaia (evidentemente però sottovalutati in quel periodo di massimo utilizzo dei mezzi ): con l’arresto del convoglio all’interno del traforo, giunse repentina l’asfissia del personale di condotta (la locomotiva venne trovata frenata, in un ultimo forse disperato tentativo dei macchinisti di non farla retrocedere) e di coloro che scortavano militarmente il treno: vennero infatti rinvenuti privi di vita oltre al macchinista Biagini, al fuochista Giannelli (entrambi del Deposito di Firenze) ed al capotreno Tognotti, anche tre militari tedeschi che si trovavano a bordo dei due carri di munizioni.

Ma purtroppo la tragedia non si fermò qui: un giovane milite diciannovenne della Milizia, che si trovava in quei giorni in licenza di convalescenza ed accorso per primo per prestare soccorso nella galleria, perì dopo pochi minuti dall’ingresso nel tunnel… così come due generosi vigili del fuoco ed un altro giovane del luogo.

Il triste bilancio della tragedia fu quindi di dieci vittime e di una ventina di intossicati gravi, in gran parte soccorritori: il treno poté essere estratto dalla galleria soltanto verso le 22.

E chissà di quante altre morti sconosciute saranno stati testimoni i tunnel appenninici di grandi e piccole linee nel corso di un secolo di presenza del fumo al loro interno … 

Ma veniamo ora alla descrizione dell’incidente dei Giovi con una sintesi di come avveniva l’esercizio su tale linea negli anni precedenti quello del disastro.

Aperta fin dal lontano 18 dicembre 1853, a motivo della rapida saturazione di cui divenne oggetto, la ferrovia venne affiancata dalla parallela “Succursale”, aperta il 1° giugno 1889: quest’ultima, beneficiando di minori pendenze (venne abbandonato il 35 per mille, presente per la lunghezza di 3 chilometri lungo la vecchia linea, a favore di un ben più mite 16 per mille) e di un traforo di maggior lunghezza (Galleria di Ronco, di 8.291 mt. con pendenza però dell’11,6 per mille) consentì un più snello ed agevole inoltro dei convogli pesanti alla volta di Torino.

Le difficoltà per i treni che percorrevano il tracciato originario erano date anche dall’allora notevole sviluppo della Galleria dei Giovi, che si estendeva per 3.258 mt. con una pendenza del 29 per mille che faceva seguito, procedendo verso nord, al tratto più acclive del 35 per mille: tali caratteristiche erano state dettate dalla primitiva tecnologia del tempo (i lavori furono iniziati nel 1845!) che tendeva a limitare il più possibile, per le difficoltà di scavo e di successivo esercizio (i problemi dati dal fumo), lo sviluppo dei tunnel, elevandone la quota degli imbocchi: si preferì così limitare ad un solo tratto di circa 10 chilometri le maggiori pendenze, confidando in un primo momento nell’adozione di “macchine fisse a corda “ (funicolari) che avrebbero assolto al compito e risolto il problema.

E fu precisamente a tale scopo che a circa metà di questo tronco venne interposto un breve tratto orizzontale – detto poi “Piano Orizzontale“ – destinato ad accogliere le macchine fisse che avrebbero dovuto provvedere alla salita dei convogli su entrambi i rami inclinati che delimitavano il piano stesso.

Con l’apertura della linea, entrarono in servizio dapprima le locomotive binate definite “Mastodonti dei Giovi“ con prestazione media, in doppia trazione, di 70 tonnellate in senso ascendente; ad esse fecero seguito, nel 1885, sotto la nuova gestione della “Mediterranea”, le leggendarie locomotive da montagna “Beugniot“ provenienti dalla scomparsa “SFAI“ (Società delle Strade Ferrate dell’Alta Italia) costituendo il gruppo 4001 – 4020 RM che andarono ad affiancare le “Sigl” a 4 assi, già in servizio fin dal 1873 e che costituivano il gruppo 4200 RM: tali potenti mezzi costituirono “spettacolari” triple trazioni (due macchine in testa ed una in coda) restando in attività per decenni, anche dopo l’elettrificazione della linea, su altri tracciati della Rete fino alla soglia degli Anni Cinquanta.

Sul finire degli Anni Ottanta, ormai alla vigilia dell’apertura della Succursale, onde porre rimedio alle difficoltà d’esercizio nel tratto Pontedecimo – Busalla, la Rete Mediterranea escogitò un espediente che si rivelò di estrema validità: oltre all’adozione della tripla trazione per i treni merci e della doppia trazione per quelli viaggiatori, suddivise il tronco suddetto in tre sezioni di “via libera” in modo tale da poter consentire la marcia contemporanea di tre distinti convogli in salita; tale provvedimento consentì di raggiungere quote di transito mai raggiunte prima toccando, nell’arco delle venti ore giornaliere, valori di ben 1120 veicoli ascendenti! (1)

Ai precedenti gruppi di locomotive fecero seguito, nel 1908 - anche se per un tempo assai limitato visto l’imminente approssimarsi dell’elettrificazione - le 470 FS che restarono in servizio fino al 1° maggio 1911 sulla vecchia linea dei Giovi, operando solitamente in doppia trazione, ed all’ottobre 1914 sulla vicina Succursale.

Su quest’ultima linea viaggiarono fino ad allora alcune delle più belle locomotive della Mediterranea, tra cui le 4500 RM (poi 750 FS) e le elegantissime vaporiere del gruppo 3000 RM (poi 650 FS) il cui prototipo, la “Vittorio Emanuele“, presentato nel 1884 ancora sotto la gestione SFAI, venne appositamente progettato per il servizio rapido viaggiatori lungo la Succursale.

Le modalità di trazione erano naturalmente differenti non solo in base a quale delle due linee venisse percorsa, ma anche – in particolare per il vecchio tracciato del 1853 – a secondo della tratta in esame: i convogli viaggiatori infatti, sul finire dell’800, partivano da Genova al traino di una sola locomotiva e percorrevano la tratta fino a Pontedecimo ad una velocità media di 45 – 50 chilometri l’ora a seconda se omnibus o diretti.

Giunti a Pontedecimo, veniva in aiuto una seconda macchina di spinta in coda per la salita fino a Busalla ad una velocità media di 30 – 35 chilometri l’ora; il peso dei convogli non poteva superare le 125 – 135 tonnellate.

I treni merci partivano anch’essi da Genova in semplice trazione ma a Pontedecimo venivano sussidiati da una coppia di locomotive, entrambe in coda, per la spinta fino a Busalla ad una media di 20 chilometri l’ora: la composizione media, in questo caso, raggiungeva i 18 carri per un peso complessivo di 324 tonnellate.

Lungo la Succursale, sempre negli stessi anni, i treni merci venivano tutti effettuati in doppia trazione ad una velocità media di 20 chilometri l’ora con convogli di 25 – 26 vagoni per un peso complessivo di 468 tonnellate.

I treni viaggiatori invece, lungo la stessa linea, viaggiavano in semplice trazione con un carico medio di 110 tonnellate alla velocità di 45 chilometri orari.

Se il 1910 rappresentò l’ultimo anno di esercizio a vapore lungo l’antico valico dei Giovi, l’avvento della trazione trifase venne ulteriormente accelerato dal perdurante inconveniente del fumo: infatti era stato proprio il fumo la causa del più grave disastro che alcuni anni prima aveva drammaticamente portato il problema a conoscenza delle cronache nazionali.

 

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(1) Negli ultimi anni dell’800, specialmente lungo le sue linee a forte pendenza ove si sviluppava un  traffico  intenso, la Mediterranea predispose appositi “distaccamenti” di frenatori ( più o meno numerosi a secondo dell’importanza della stazione ) con relativi capi-frenatori incaricati di sussidiare i convogli transitanti lungo i tratti in salita: a tale scopo, lungo la nostra linea, si dotarono i depositi di Ronco Scrivia di 58 frenatori, di Pontedecimo di 46, di Busalla di 19.

Il personale dislocato a Rivarolo consisteva invece in 279 unità:

n. 2 capideposito ( uno dei quali incaricato delle prove-combustibili )

n. 4 sotto-capideposito

n. 101 macchinisti

n. 140 fuochisti

n. 19 allievi-fuochisti

n. 25 accenditori

n. 2 capi squadra

n. 38 operai

n. 48 manovali

Nel Deposito di Rivarolo , che soprintendeva alle linee dei Giovi , all’inizio dell’anno 1900 erano in servizio inoltre i seguenti gruppi di locomotive:

n. 42 locomotive a 3 assi per treni merci dei gruppi 3001 – 4000 RM

n. 44         “         a 4 assi  dei gruppi 4001 – 5000 RM

n. 3   locotender  dei gruppi 5001 – 6000 e 6001 – 7000 RM

Per un totale di n. 89 unità: di esse, n. 60 erano costantemente in servizio mentre la n. 3382 era tenuta fissa per le manovre a Busalla.

(2) Consigliamo sull’argomento la consultazione dell’interessantissima opera  del Prof. Angelo Mosso:

La respirazione nelle gallerie e l’azione dell’ossido di carbonio“, Treves, Milano, 1900.

 

(3) La Mediterranea effettuò in quella circostanza una serie di misurazioni nel corso delle quali rilevò, per temperature dai 16° ai 18° al livello del binario, valori estremi di ben 52° sotto il tettuccio delle locomotive!

 

(4) Era per tale difficile lavoro che la Mediterranea ( come l’Adriatica ) assegnava al personale di macchina in servizio sia lungo la vecchia linea dei Giovi che su quella del Frejus un soprassoldo, retaggio di un precedente riconoscimento della Società per le Strade Ferrate dell’Alta Italia.

 

(5) Causa la scarsa visibilità dei segnali all’interno della galleria a motivo del fumo, al momento dell’impianto del blocco lungo la Succursale fra Ronco Scrivia e Sampierdarena, si ritenne opportuno sussidiare i segnali ottici, presenti all’interno della Galleria di Ronco, con segnali acustici  tipo “risuonatori meccanici“; a sussidio invece dei segnali di fermata, la Mediterranea adottò nel 1900, in via sperimentale, gli “sparapetardi Scartazzi – Opessi“ che, sincronizzati con i segnali ottici di fermata, avvertivano con una detonazione i macchinisti in transito della presenza del relativo segnale.

 

(6) Sulla vecchia linea dei Giovi erano ancora in opera le rotaie a doppio fungo da 40 Kg/mt. il cui fissaggio, mediante attacchi diretti con cunei di legno, costringeva a più frequenti verifiche.

Inoltre, nell’esercizio 1900 – 1901, si dovette far fronte alla completa sostituzione del binario discendente nella Galleria di Ronco dove, nei mesi precedenti, si era verificata una crescente e preoccupante serie di rotture dei funghi delle rotaie: se infatti nel 1898 era stato necessario sostituire 8 rotaie al mese, nel primo semestre 1899 si passò a 22 rotture che poi salirono, nei successivi cinque mesi da agosto a dicembre, rispettivamente a 63, 50, 55, 108 e 60.

E tutto questo nonostante la presenza di rotaie relativamente pesanti ( Kg. 45 / mt. ) il cui collasso era quasi esclusivamente da addebitare all’aggressiva atmosfera presente in galleria: per questo si ritenne di adottare un tipo speciale di rotaia ( da 47,6 Kg./mt. ) che disponesse di un maggior spessore della suola e di un’ingrossamento nel punto d’unione tra gambo e fungo realizzato a mezzo di raccordi curvilinei.

 

(7) Ricordiamo, tra l’altro, che nel 1892 la Rete Mediterranea aveva dato inizio con successo anche all’illuminazione elettrica con accumulatori di due sue carrozze: l’una di I classe, in servizio sulla Torino – Roma, l’altra mista di I e II classe, sulla Torino – Milano.

 

(8) Tratto da: “Il Traforo delle Alpi Cozie” su L’Emporio Pittoresco, numeri dal 28 ottobre al 18 novembre 1871.

 

(9) Da: Francesco Kossuth , Direttore Generale delle miniere di Boratella, Borello, Polenta – “Ventilazione artificiale, perfetta ed economica della Grande Galleria del Frejus”, Cesena, 1880.

 

(10) Piero Giocosa: “I pericoli delle gallerie ferroviarie” in Nuova Antologia del 1° giugno 1901, pag. 467.

 

(11) Per maggiori notizie sulla tragedia, consultare l’interessante libro di Gianluca Barneschi:

Balvano 1944 – I segreti di un disastro ferroviario ignorato”, Mursia Editrice, Milano, 2005.

 

(12) Tratto da Nicola Laganà: “L’inferno nella Galleria dei Ceracci”.

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Estratto dal volume dello stesso Autore:

Fumo, l’antico spettro delle gallerie – Storia della trazione a vapore in galleria”, La Vaporiera, Cento, 2005

 

per informazioni su altre pubblicazioni dello stesso autore:

maurizio.panconesi@alice.it

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