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La piazza che i napoletani ancora oggi non gradiscono chiamare con la sua denominazione ufficiale “piazza Garibaldi” (forse perché non hanno mai amato il personaggio cui essa è dedicata) agli inizi degli anni '60 era tutta un cantiere. Sotto il piccone cadevano ad una ad una le granitiche rosee colonne della vecchia stazione e con esse tanti ricordi dei napoletani.

Si demoliva per allargare la piazza e far posto ad un moderno complesso.

Il fabbricato abbattuto, progettato dagli architetti Breglia ed Alvino, era stato inaugurato poco dopo l’Unità d’Italia, nel 1867, ed era stato denominato "Stazione Centrale delle Ferrovie" proprio a voler sottolineare la funzione di capolinea comune delle due linee che dirigevano a sud ed a nord.

Quando fu indicato il lato orientale per la nuova stazione ferroviaria di Napoli, la città si presentava ancora serrata nella cinta muraria aragonese. Al di là della cortina, anche se in parte bonificato e coltivato ad ortaggi, il terreno era ancora paludoso a causa delle acque che vi confluivano durante la stagione invernale dal colle di Lautrec attraverso il canale dell’Arenaccia.

Ed è per questo motivo che tutta la zona era conosciuta dagli antichi con il termine Paludes.

Le due stazioni pre-unitarie: quella del Bayard per Nocera e quella della Regia Strada Ferrata per Capua (riquadro in basso);

al centro, la zona delle paludi dove sorgerà la nuova Stazione Centrale delle Ferrovie.

 

In quel periodo da Napoli partivano soltanto due strade ferrate: una per Castellammare, Nocera e Vietri e l’altra per Caserta, Capua e Presenzano. Ciascuna di esse, a causa della diversa gestione, si attestava a proprie stazioni, poste a breve distanza l’una dall’altra lungo l'antica via detta de' Fossi.

Per la costruzione della Stazione Centrale delle Ferrovie, la cui realizzazione si inseriva in un progetto di sistemazione del quartiere orientale già redatto dal passato Governo borbonico, fu scelta l’area denominata “Giardino dei Caraccioli”  prospiciente la zona della Duchesca dove un tempo vi era una magnifica villa costruita da Giuliano d’Aragona, Duca di Calabria e figlio di Ferdinando I. L’edificio sorgeva nelle vicinanze di Castel Capuano a fronte a lo giardino grande e confinava con la murazione.

Ritornando al progetto, esso fu affidato agli architetti Breglia ed Alvino ed il 2 giugno dell’anno 1861, primo anniversario dell’indipendenza italiana, S.E. Ponza di San Martino - Luogotenente Generale del Re - pose la prima pietra. Così, tra le numerose polemiche sorte, le fondamenta del fabbricato della nuova stazione cominciarono ad essere una realtà.

Per alcuni la collocazione dell’edificio fu ritenuta errata poiché la sua presenza avrebbe interrotto il percorso diretto Arenaccia - via Garibaldi con grave difficoltà per l’attraversamento dei vari dislivelli esistenti con le due vecchie stazioni; ed ancora avrebbe costituito ostacolo per la realizzazione di quel nuovo quartiere orientale progettato dall’ingegnere Luigi Giura. Per questi motivi, esistendo al momento solo le fondamenta, poteva essere presa in esame la possibilità di un suo spostamento.

E mentre il Consiglio comunale discuteva sul da farsi, pietra su pietra prendeva corpo la Stazione tanto che il 7 maggio del 1867 essa fu inaugurata e la questione abbandonata.

La stazione di Napoli Centrale in una rara incisione di fine '800 (coll. A. Gamboni).

Un raro dipinto ottocentesco, attribuito al pennello di Salvatore Fergola (v. titolo), raffigura l’edificio nel suo aspetto originario con il colonnato di granito rosa ed il fronte neo-classico recante il famoso orologio. La parte centrale del porticato era provvista di grandi porte con vetrate le quali ebbero vita breve a giudicare dalle successive testimonianze iconografiche. Lo spazio antistante fu sistemato a verde e per la sua realizzazione fu abbattuta parte della murazione aragonese con tre torri: la Partenope, l’Aragona e  la S. Severo. Nella nuova piazza, denominata Piazza dell’Unità Italiana, fu sistemata una fontana costituita da un gruppo marmoreo rappresentante la Sirena Partenope posata sopra uno scoglio intorno al quale s’intrecciano delfini, testuggini, cavalli marini e piante acquatiche. L’opera, realizzata da Onofrio Buccino, si trova oggi in piazza Sannazaro all’imbocco del tunnel Laziale.

La planimetria era quella classica di una stazione di testa: edificio frontale dal quale prendevano origine i sei binari fiancheggiati da due ali occorrenti ai servizi per il pubblico in arrivo ed in partenza. Il vapore delle ansimanti locomotive inondava i marciapiedi e risaliva fin sotto l’ampia tettoia in metallo ed in vetro progettata dal Cottreau come una fitta nebbia appena rischiarata di sera dal barlume delle lanterne. Tra il rumore degli sportelli ed il parlare confuso, grappoli di anneriti passeggeri venivano assediati all’uscita da una folla di facchini, di ragazzi e di fattorini d’albergo i quali tutti offrivano le loro prestazioni con insistenza e con modi alquanto molesti.

Planimetria della stazione di Napoli Centrale al 1° luglio 1885 (coll. A. Gamboni).

Vecchie cartoline del tempo raffigurano l’edificio nel suo aspetto originale con gli antistanti giardini e la fontana della Sirena. Allora i binari si addentravano tra le due ali del fabbricato spingendosi fin quasi nella piazza ed il traffico dei treni era regolato da un orologio, strumento che entrò a far parte dell’architettura delle stazioni fin dai primordi.

 

Vista prospettica della Stazione di Napoli Centrale. Sul lato destro è visibile il porticato sorretto dalle famose colonne.

(coll. A. Gamboni)

La piazza antistante la stazione durante i lavori che furono eseguiti secondo il piano regolatore del Risanamento.

 La fontana della Sirena fu spostata a piazza Sannazaro ed al suo posto fu sistemato il monumento a Garibaldi a piedi.

(coll. A. Gamboni)

In principio gli orologi della Stazione Centrale erano due, l'uno rivolto verso la piazza e l'altro verso i binari ed entrambi sistemati in un tempietto che, in posizione centrale, sovrastava gli archi colleganti i due corpi di fabbrica laterali. Quando durante l’ultimo conflitto mondiale i bombardamenti distrussero la bella tettoia di ferro e vetro e con essa anche l’orologio interno, fu ritenuto opportuno non ricostruire quanto danneggiato. All'orologio superstite, quello rivolto alla piazza, fu sostituito il vecchio quadrante bianco con le cifre romane in nero con uno più moderno a fondo nero e cifre bianche arabe.

Anche quest’ultimo orologio, insieme all'intero complesso, è stato vittima del piccone demolitore del 1960 e di esso resta solo un ricordo nella memoria di chi scrive e ingiallite immagini in cartoline d’epoca.

 

Interno della vecchia stazione di Napoli Centrale. La locomotiva in partenza è una R. M. 2786.

Questa scritta ha evidenziato  l'errore di stampa della cartolina, pertanto l'immagine proposta risulta ribaltata rispetto all'originale (coll. Antonio Gamboni).

Il sospirato giorno finalmente era venuto. Si andava a Napoli! Io e mio fratello avevamo la faccia nera di fumo per aver viaggiato sempre al finestrino, ritraendoci solo all’appressarsi dei tanti tunnel il cui ingresso e le cui uscite erano segnalate dal fischio acuto della locomotiva. Cava, Pompei, Torre Annunziata. Una lunga sosta allo Sperone.

I capannoni con enormi scritte sulla facciata: “Zuccherificio Valsacco”. Napoli! “Guardate, guardate — disse mia madre —, vedete quante luci!”. Così il treno entrò in stazione. “State qua, non vi allontanate”. Io e mio fratello ci stringemmo spauriti tra il via-vai dei viaggiatori in arrivo ed in partenza, le grida dei bagagliai, il rotolio dei carrelli sui marciapiedi e l’imperversare di quella parlata, di quel dialetto sentito per la prima volta su quei monti, da una voce sola.

Ma io cercavo le colonne, affrettando il passo sotto la pensilina.

Ed ecco alla fine apparire le colonne in una prospettiva da scenario, e i portici e l’immensa volta a vetri ancora più stupefacente del palazzo del re, delle “Mille ed una notte”, le colonne delle nostre mille e una notte d’inverno, sotto la neve. “Oreste, dov’è Oreste? ”chiese mia madre. Mio fratello, abbagliato da tante luci e guardando in alto stupito, s’era tolto il berretto, e si faceva il segno della croce.

(da: Carlo Nazzaro, Napoli sempreviva, 1963)

 

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