Ricordi d’infanzia della vita

in una piccola stazione dell’Appennino …

 

Libera rielaborazione di una testimonianza dell'ex macchinista Marcello Peranizzi

Testo e foto di Maurizio Panconesi

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Fornello: un nome pressoché sconosciuto in ambito ferroviario … Una minuscola stazione, lungo il tratto appenninico della linea Faentina (Firenze – Faenza), le cui mura con i loro intonaci ormai sbiaditi vanno, anno dopo anno, sbrecciandosi sempre più; un edificio abbandonato, preda oggi di rovi ed ortiche, ma in cui un tempo – oltre cinquant’anni fa – rifulse la vita dei suoi pochi abitanti con le loro storie e le loro fatiche di una quotidiana esistenza lontana da tutto.

Stralcio da un Orario ferroviario del 1° gennaio 1958. La piccola stazione di Fornello è evidenziata in giallo.

Quanto seguirà nelle prossime pagine è una storia talmente romantica e suggestiva da apparire quasi una favola, ma a volte la realtà può veramente superare ogni immaginazione: la vicenda si svolse in una piccola stazione, sperduta tra i monti, dove i treni fermavano raramente se non per qualche incrocio o per il termine delle “spinte” delle locomotive a vapore alla conclusione del tratto più acclive, lungo una linea a binario unico.

Protagonisti: il bambino di allora, figlio del cantoniere che vi abitava, un capostazione, compagno di giochi, gli anziani cantonieri del casello del chilometro 50 + 415, al di là della galleria, la giovane maestrina, venuta da lontano per insegnare ai tre piccoli scolari i primi rudimenti della loro futura formazione di uomini … e l’Appennino, a fare da sfondo, con i suoi suggestivi panorami.

Una storia vera, dicevamo, narrataci da un vecchio macchinista - il bimbo di allora - che conserva ancor oggi il ricordo e la nostalgia per quegli anni ormai lontani, fatti di “cose” oggi impossibili da ritrovare ed apprezzare; una vita di fanciullo, trascorsa in quella minuscola stazione montana, in attesa della riattivazione della linea, un’esistenza oggi incredibilmente troppo lontana dal mondo e dal nostro modo di vivere.

“Non posso dire che la mia vita sia stata monotona: tutt’altro. Del posto dove sono nato il 2 novembre del 1949 e lì vissuto fino al giugno del 1957, non esiste ormai quasi più nulla.

Si tratta di un’ex stazione ferroviaria sulla linea Faentina fra Ronta e Crespino del Lamone, al centro dell’Appennino. La guerra era finita da quattro anni, ma quattro anni a Fornello - così si chiama il posto - sono come quattro mesi dalle nostre parti, ai nostri giorni. Lassù non c’era né strada, né luce elettrica; per arrivare a Gattaia, il paese più vicino, c’era (e c’è tuttora) solo una mulattiera e quasi un’ora di cammino; era da lì che dovevamo passare per gli approvvigionamenti. La ferrovia era stata devastata dai tedeschi in ritirata: nonostante nel 1953 avessi solo quattro anni, ricordo benissimo gli apparati della stazione ormai fuori uso, le ringhiere dei ponti precipitate a valle ed altre innumerevoli distruzioni. Qui ho trascorso l’infanzia giocando e facendo continue scoperte. Talvolta mio padre mi portava nella ex cava di materiale lapideo che era servita per la costruzione della ferrovia (Faentina): lì era rimasta una ferrovia Decauville con i vagoncini a tramoggia per scaricare il materiale nel sottostante impianto di frantumazione. Per me, a quell’età, furono esperienze indimenticabili; purtroppo di tutto ciò non è rimasto più nulla ad eccezione di due grossi frantumatori con i relativi volani che si stagliano ancora verso il cielo, quasi in un ultimo disperato grido di aiuto.

La stazione di Fornello dove il treno non ferma ormai da decenni.

Il silos con il piano di carico è andato completamente distrutto, così come parte della cabina elettrica nella quale ancora oggi, tra le macerie, si possono scorgere alcuni grossi motori elettrici ed i resti di una caldaia a vapore che alimentava, fra le altre cose, il fischio della sirena che annunciava agli operai l’inizio e la fine del lavoro. Ricordo benissimo che presso la stazione c’era il rifornitore, un grosso serbatoio di acqua che serviva ad alimentare le colonnine idrauliche (dette in gergo “cavalli dell’acqua”) per riempire i tender delle locomotive a vapore: anch’esso aveva risentito dei danni della guerra. Era privo infatti del tetto, e dall’alto della collina sovrastante si poteva vedere l’acqua all’interno, di colore verde per la profondità.

Per arrivare in cima al serbatoio idrico c’era una lunga scala in ferro. Mio padre mi proibiva tassativamente di salire per quella scala: io non capivo il perché e il mistero mi affascinava. Solo due anni fa, a quasi sessant’anni, ho capito il perché della proibizione quando sono salito fin lassù: adesso l’impianto è vuoto e sono sceso all’interno attraverso delle scale fissate alla struttura; immaginarlo pieno d’acqua fa veramente impressione.

Raramente ci accadeva di lasciare quel luogo chiamato Fornello: accadeva soltanto ogni volta che eravamo costretti per fare provviste a recarci a Borgo San Lorenzo, dove abitavano i nonni materni, ed era un’avventura …

L'ottocentesco rifornitore idrico della stazione.

Il cancelletto di accesso alla stazione è ormai preda di rovi ed ortiche.

Ricordo che mio padre metteva sui binari, rimasti intatti, un carrellino a pedali di quelli che usavano i cantonieri per fare le ispezioni al binario: era costituito da un telaio con quattro ruote e una tavola di legno trasversale con una piccola spalliera; c’era inoltre una leva che spingeva contro le ruote due ceppi di legno: quello era il freno! Dopo averci ben vestiti e imbacuccati per proteggerci dal freddo e dalle infiltrazioni d’acqua che stillavano dalle volte delle gallerie, mio padre e mia madre salivano in piedi sul telaio con a portata di mano la leva del freno, mentre io e mia sorella ci mettevamo seduti sulla tavola di legno. Scendevamo per gravità quei chilometri di linea, priva di traffico perché non ancora riaperta all’esercizio; arrivavamo così fino a Ronta e mio padre mi faceva notare, mentre percorrevamo in velocità la galleria di Monzagnano - Avacchino, il cunicolo direzionale in alto a destra da cui filtrava un pallido spiraglio di luce. Questo particolare, che colpiva la mia immaginazione di bambino, poi non l’ho mai dimenticato tanto che, molti anni più tardi, alla metà degli anni ’90, quando avevo occasione di percorrere quella stessa galleria … questa volta da macchinista alla guida dei treni, non mancavo mai di alzare gli occhi e ricordare il mio stupore di tanti anni prima.

Quando, nei viaggi sul carrello della nostra infanzia arrivavamo all’imbocco della galleria, essendo ancora distrutto il ponte sul vicino torrente, mio padre toglieva il carrellino dalle rotaie e dopo aver nascosto le coperte in cui eravamo avvolti noi bambini in un fornello di mina inesploso, nel piedritto della galleria, scendevamo sulla strada ad aspettare la corriera che ci portava a Borgo San Lorenzo.

Se la discesa verso la pianura avveniva comodamente per tutta la famiglia, così non era al ritorno quando, con il carrello carico di provviste per diverse settimane, occorreva ripercorrerla all’insù … in salita!

Allora, mia sorella ed io seduti sulla solita panca di legno, udivamo alle nostre spalle l’affannoso ansimare del babbo e della mamma, uno da un lato e l’altro dall’altro, sospingere faticosamente lungo la massicciata il piccolo ma pesante mezzo, unica possibilità per trasportare merci e famiglia insieme verso la solitaria stazione.

Ciò avvenne fino al 1954, anno in cui ebbero inizio i lavori per il ripristino della ferrovia: in quell’anno infatti incominciarono ad arrivare a Fornello i carrelli a motore delle ditte appaltatrici e talvolta gli operai ci trasportavano fino a Ronta o viceversa.

Quel vecchio carrellino a pedali, mezzo di tante avventurose gite verso la pianura … esiste ancora: si trova a Firenze, nel Museo ferroviario della ex stazione Leopolda di Porta a Prato.

A quei tempi - erano gli Anni Cinquanta - c’erano altre famiglie che abitavano nelle case vicino alla stazione: una di queste, abitava in una casa oltre il torrente, proprio di fronte a Fornello; questi nostri vicini coltivavano il grano in piccole radure ricavate nei boschi di castagni: quando in estate arrivava il momento della trebbiatura, era per me un vero avvenimento.

In lontananza vedevo arrivare la trebbiatrice trainata dai buoi e pregavo mio padre di portarmi ad assistere al lavoro: per me, bambino di quattro - cinque anni, tutto questo era fantastico!

Il movimento alla macchina veniva dato da un vecchio motore a testa calda: per avviarlo ci voleva molto tempo; prima di iniziare il lavoro, veniva azionata una sirena che si udiva in tutta la vallata.

Terminata la trebbiatura del mattino, la stessa sirena annunciava che il pranzo era pronto e tutti si radunavano intorno ad un tavolaccio, sempre in mezzo al bosco e sotto secolari castagni.

Un altro periodo interessante era quello del taglio della legna nei boschi al di la del torrente, proprio di fronte alla mia stazione: la legna veniva legata a fasci e, per mezzo di una teleferica, veniva fatta scendere agganciata a una carrucola lungo un cavo d’acciaio che partiva dal bosco e giungeva fin sul piccolo piazzale della stazione: da qui, a bordo di carri pianali, veniva trasportata fino a Ronta, dove era prelevata dai camion. Per portare la legna alla partenza della teleferica, sull’altro versante della valle, si utilizzavano dei muli: venivano loro legati due fasci di legna ai lati del basto, e in fila indiana in gruppi di sei, scendevano verso la partenza della teleferica e talvolta anche alla ferrovia.

Nonostante sia passato tanto tempo ricordo benissimo tutti gli abitanti. I più caratteristici erano comunque loro: il Cecco e la Beppa. Abitavano nella casa cantoniera del chilometro 50 + 415, proprio all’imbocco della Galleria dell’Appennino, detta anche Galleria degli allocchi.

Il casello della Beppa e Cecco al km 50 + 415.

Lui era un ex cantoniere FS in pensione, sua moglie, una casalinga: erano talmente attaccati al loro casello che all’inizio degli anni ’60, quando di lassù tutti ormai se ne erano andati via rimasero i soli abitanti di quei luoghi solitari ed impervi.

Cecco era un accanito bevitore, forse per consolarsi di quella solitudine … tanta, e delle soddisfazioni riservategli dalla vita … poche. Lo ricordo benissimo: la pipa sempre in bocca e quando passava sotto le finestre della stazione di Fornello, mio padre era solito chiedergli se volesse un bicchiere di vino, al che lui era solito rispondere: “Niente chiedere e niente rifiutare!”.

Poi anche per lui arrivò il momento di passare a miglior vita e la Beppa rimase da sola, nel suo casello … ancora più grande e vuoto.

Dopo alcuni anni, essendo ripresa la circolazione dei treni dopo la riapertura della linea, le sue condizioni psicofisiche peggiorarono alquanto, tanto che la sua mente cominciò a vacillare: per questo, ai macchinisti dei treni in transito in quella tratta solitaria, veniva raccomandata particolare attenzione per la probabile presenza dell’anziana donna nei pressi della sede ferroviaria.

Un giorno poi, funzionari delle ferrovie, con l’aiuto dei carabinieri andarono a prelevarla per portarla a valle nel paesino di Gattaia dove viveva sua figlia. Estirpata da quel piccolo mondo che ne aveva costituito per decenni il teatro delle vicende di tutta una vita, la sua esistenza bruscamente si interruppe, soltanto appena pochi mesi più tardi.

Si racconta che al momento del forzato prelievo dal suo amato casello, motivò il rifiuto di abbandonare quel luogo a lei tanto caro dicendo: “Cecco mi ci ha portato e Cecco mi riporterà via!

Interno del casello: la scala che portava al piano superiore e la sala ormai senza soffitto con il caminetto.

Ritornando agli anni della mia fanciullezza, ricordo che nel 1955 ebbi a Fornello le mie prime nozioni scolastiche; a valle della stazione, vicino al torrente, sorgeva una casa colonica in cui venne “attrezzata” ad aula una stanza.

Il maestro, essendo ancora la ferrovia interrotta, giungeva da Borgo San Lorenzo con una Lambretta, percorrendo i sentieri che costeggiavano i binari: aveva impiegato alcuni giorni, munito di una zappa, per renderli praticabili, creando talvolta degli scavalchi con la ghiaia per consentire l’attraversamento delle rotaie. Gli alunni, in quella sola stanza destinata ad aula scolastica, erano sei … di tutte e cinque le classi!

Se impartire le lezioni costituì per il povero maestro un’impresa ardua, altrettanto difficile era anche per gli scolari il raggiungimento di quella scuola di fortuna, dispersa tra i monti: dovevano giungere a piedi dopo parecchio cammino dai loro casolari, percorrendo viottoli e mulattiere, con il freddo, la pioggia o la neve. Potei così frequentare la prima e la seconda classe elementare.

Nel 1956 ricominciarono a passare i treni lungo la Faentina, riaperta parzialmente fino a Crespino del Lamone: il materiale rotabile consisteva allora nelle Aln 772, Aln 990 o Aln 880. Le macchine a vapore si vedevano raramente se non per il traino di treni materiale o merci.

Nel frattempo, forse a causa dei disagi per raggiungerla, a scuola eravamo rimasti solo in tre allievi, due dei quali eravamo io e mia sorella, essendosi  quasi tutte le famiglie trasferite a valle.

La giovane maestrina, nostra insegnante di seconda elementare, proveniva da Firenze ed arrivava al lunedì mattina, restando poi ospite in casa mia fino al fine settimana; talvolta accadeva che ci portasse con lei a casa sua, facendoci visitare la sua grande Città.

La meraviglia per noi era in quelle occasioni cosa indescrivibile: le auto, i tram, i monumenti … cose neanche immaginate, perché a Fornello, non essendoci neppure la corrente elettrica, la radio continuò a rappresentare soltanto un sogno lontano, rendendo praticamente impossibile qualsiasi contatto con il mondo esterno. Tutto ciò che esisteva al di là delle mura della nostra minuscola stazione Ci veniva trasmesso da quella giovane insegnante venuta, per noi, da tanto lontano!

Uno dei più bei ricordi di quegli anni, furono le lezioni tenute all’aperto soltanto per noi tre: sopra il portale di una galleria, i nostri quaderni sull’erba, un piccolo prato per banco, il sole della nascente primavera per lampada, il profumo dei fiori come magico sottofondo alle parole di quella maestra d’allora … il cui ricordo mi commuove ancora … Anche il capostazione, non avendo la famiglia e vivendo da solo nel suo appartamento al primo piano, per la colazione, il pranzo e la cena veniva da noi; se sono diventato poi ferroviere, lo devo proprio a lui per quella grande passione per la ferrovia che ha saputo instillarmi. Ricordo infatti che mi portava spesso nel suo piccolo ufficio movimento spiegandomi i regolamenti ed il funzionamento degli apparati.

La maestra, il capostazione, Cecco, la Beppa, i miei genitori: poche persone con cui condivisi insieme a mia sorella gli anni più belli, quasi personaggi di una fiaba dai contorni, inesorabilmente, sempre più sbiaditi. Poi, nel giugno del 1957, venne assegnata a mio padre una casa cantoniera al chilometro 32, fra Borgo San Lorenzo e San Piero a Sieve: il trasloco fu fatto via ferrovia, con un carro merci trainato da una locomotiva a vapore … un treno vero, non più un carrello a pedali, soltanto per noi!

Là fu un altro mondo: altra gente, più comodità, più possibilità di rapporti con gli altri … ma il ricordo di Fornello restò sempre forte e vivo in me per quel suo fascino fatto di interminabili silenzi, silenzi in cui avevo ormai iniziato a sentire la voce di quella natura che, oggi, ancora rimpiango”. 

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