di Gennaro Fiorentino

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Chissà quanti dei passeggeri intenti ad imbarcarsi su un aereo da Napoli Capodichino, si saranno chiesti il nome di quel quartiere laggiù in fondo, dove un’immaginabile rete divide gli hangar dalla città. C’è anche un campanile che svetta a memoria della chiesa patronale il cui Santo dà il nome a quell’angolo di Napoli. Sì, perché quel lato cittadino si chiama San Pietro a Patierno. Fino al 1925 costituiva addirittura un comune; poi con la riforma voluta dal regime, molti dei municipi satellitari furono accorpati nel capoluogo. Ciò successe a Napoli, ma anche in altre città italiane.

La strada che rasenta la rete, di cui dicevamo, si chiama con una data “4 aprile 1943”.  Una volta si chiamava via Tramway perché di lì passava il tram (che fantasia!). E proprio il tram fu protagonista di un episodio bellico che provocò tanti morti e feriti, che accadde, come avete intuito, quel 4 aprile del 1943. Solo qualche mese prima che l’ecatombe infinita della II GM desse segni di fine.

Nelle vicinanze dell'aereoporto di Capodichino vi è la "via detta tramvia fratta"

la cui targa toponomastica è coperta da una tenda da sole (foto A. Gamboni).

Prima però d’intraprendere il racconto del devastante pomeriggio, sarà il caso di accennare alle condizioni di vita in città di quel tragico 1943. Napoli era sempre più nell’obbiettivo delle fortezze volanti USA, che pur dirigendosi verso target d’interesse strategico (nodi ferroviari, porto, caserme, industrie), finivano con il coinvolgere anche la popolazione civile. Ogni giorno l’impietoso elenco di lutti e rovine si arricchiva di una nuova pagina.

Piazza N. Amore: drammatica immagine della linea tramviaria

divelta dall’esplosione di una bomba (Archivio ANM).

Si usciva di casa per gli ultimi barlumi di lavoro o per procacciarsi un po’ di cibo, senza la certezza di potervi rientrare sani e salvi; oppure di trovare in piedi il proprio tetto. Le sirene degli allarmi, installati in luoghi strategici, non sempre riuscivano ad avvisare in tempo i cittadini. Quando se ne aveva la forza, si correva ai ricoveri (molti davvero improbabili). Molto efficaci erano le stazioni ipogee della metropolitana a Cavour e a Montesanto. Chi ne aveva avuto la possibilità economica aveva rifugiato la famiglia in villaggi agricoli, fittando stamberghe che si presumeva fossero fuori dai raids aerei.

 

La Piazza Cavour con la stazione della Linea Napoli-Pozzuoli e, in basso,

i corridoi di accesso al piano dei binari posti a circa 31 metri sotto il livello stradale.

La stazione si dimostrò un affidabile rifugio contro i bombardamenti (coll.A. Gamboni).

La rete dei trasporti cittadini ne risultava molto provata con danni incalcolabili al materiale rotabile ed ai depositi.

La città rimase emotivamente sconvolta dall’episodio accaduto il 4 dicembre 1942, quando uno stick di bombe di aereo centrò in pieno due vetture tramviarie. La zona era quella di Monteoliveto, tra il nuovo palazzo delle poste e il palazzo Gravina (oggi sede della facoltà di Architettura). I morti ed i feriti non si contarono. Fu l’effetto di un cambio di passo nella strategia offensiva che intendeva colpire anche le attività civili con il sistema “a tappeto”.

 

Via, vai di tram in Via Monteoliveto tra il moderno palazzo delle Poste ed

il nuovissimo grande magazzino Upim in un giorno di pace (Coll. G. Fiorentino).

Qualche giorno prima di quel fatidico 4 aprile, ossia il 28 marzo, c’era stato poi l’evento della “Caterina Costa” che aveva incrementato in maniera esponenziale, lutti e rovine. Il moderno cargo si trovava ormeggiato al molo S. Erasmo. Dopo essere stato caricato all’inverosimile di carburanti ed esplosivi, si apprestava a salpare per la Tunisia onde approvvigionare le sfiancate truppe italiane. A bordo scoppiò un incendio sulla cui origine si è discusso a lungo circa una pur tragica casualità oppure frutto di un sabotaggio degno di una spy story. Certo che al tramonto l’incendio indomato, degenerò provocando un’apocalittica reazione a catena. La nave esplose trasformando ogni molecola del suo carico, e lo stesso scafo, in milioni di schegge impazzite. Esse andarono a colpire tutti i quartieri della città: tra parte bassa e zona collinare. Oltre ai danni materiali, la popolazione si trovò vittima di un’ecatombe. Tanti passanti furono visti stramazzare morti al suolo oppure tragicamente mutilati. Intanto lo specchio d’acqua dove la Caterina era ormeggiata, si trasformò in un inferno di fuoco, con migliaia di litri di benzina in fiamme sul pelo dell’acqua. I danni alla struttura portuale, nonché al naviglio adiacente, furono irreparabili.

Al momento dellesplosione, la Caterina Costa era ormeggiata al molo S. Erasmo (indicato dalla freccia rossa).

Ledificio cerchiato in rosso è il Teatro Italia (coll. A. Gamboni).

      

Il fabbricato del Teatro Italia (ex Stazione del Bayard) danneggiato dallesplosione della nave e, a lato,

il palcoscenico semi-distrutto. Significativa la posizione dello stemma sabaudo (coll. A. Gamboni).

Arriviamo così al pomeriggio di quel drammatico giorno di primavera. La nostra azione si svolge nella stazione della S.A.T.P. (in seguito TPN), dove un geniale imprenditore belga Edouard Otlet, aveva posto il terminale delle Tramvie Provinciali. Si trattava di una rete nata sul finire del 1800 ed esercita prima a vapore e poi a trazione elettrica. In sostanza si era trapiantata a Napoli (come del resto accaduto anche in altre città dello stivale), il know how delle tramvie vicinali belghe. Con lo sviluppo delle ferrovie, consapevoli che esse non avrebbero mai potuto raggiungere ogni paese o villaggio, si era pensato di costruire un sistema a metà tra treno e tram urbano, per connettere quante più cittadine rurali con il capoluogo o comunque con una stazione ferroviaria di prossimità.

Sin dal 12 luglio 1880 la stazione della S.A.T.P. (che vantava una discreta lista di paesotti serviti) era stata posta nella piazza di Porta Capuana (oggi Giovanni Leone). L’edificio era un po’ minimo, ma aveva tutti i requisiti canonici di una stazione del treno: sale di attesa, ufficio del capostazione, ritirate, baretto, tabaccaio e così via. Cinque binari le si prospettavano alimentati tuttavia da uno solo sul quale i convogli in entrata da Vico Casanova (oggi Via Bellini) dopo aver effettuato il rituale loop o racchetta rasente il carcere di San Francesco (poi Pretura), andavano ad attestarsi. Insomma un giusto e razionale compromesso tra grande e piccolo.

L’edificio della stazione di Porta Capuana della SATP era un po’ minimo, ma aveva tutti i requisiti canonici

di una stazione ferroviaria: sale di attesa, ufficio del capostazione, ritirate, baretto, tabaccaio e così via.

Automotrice tramviaria con rimorchiata mentre impegna la grande racchetta di Piazza San Francesco.

Limmagine risale agli anni 50 del secolo passato (Archivio C.T.P.).

In quelle ore post meridiane, c’era stato il preallarme e subito dopo una folla piuttosto motivata (per essere eufemistici) faceva pressione sul capostazione perché desse il segnale di partenza di quella corsa straordinaria verso Caivano. Secondo lo schema del convoglio tipo, era formata da motrice due rimorchi. E così fu data la partenza. La massa urlante si acquietò senza immaginare che si stava compiendo il famoso detto “dalla padella nella brace”. Arrivati in piazza Capodichino, oggi Di Vittorio, il convoglio assunse la direzione S. Pietro-Caivano-Afragola, tangendo il limite degl’impianti aeroportuali con i suoi hangar ed altre strutture gestite dall’esercito tedesco.

Convoglio composto da motrice e due rimorchi fotografato al Largo Cilenti alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. L’attesa del tram invoglia i piccoli commerci (Archivio C.T.P.).

Un’ondata di fortezze volanti americane si accanì su aerei a terra e capannoni. Ma, come si disse poi, quel trametto (ancorché formato da tre elementi) dovette apparire dall’alto come un treno che stava impegnando i binari di una ben più imponente ferrovia. Insomma fu l’inferno. I poveri passeggeri scesero dalle vetture, allontanandosi dal tram per dirigersi verso le reti ormai squarciate. Si trovarono così tra le bombe che piovevano dall’alto e la contraerea tedesca. Molti, nell’impeto di sottrarsi a quell’apocalisse, istintivamente procedettero carponi dando vita ad una tragica quanto goffa scena di un gregge.

Quando tutte le armi tacquero e gli aerei nemici rientrati alle loro basi, su quel prato restarono tanti caduti civili ed un numero indefinito di feriti e mutilati. E come dicevo all’inizio, il doveroso omaggio alle vittime della follia umana è rappresentato dal nome di questa strada oggi intitolata ad una data, carica di eloquenza: 4 aprile 1943.

Qualche tempo dopo dai fatti narrati, il 9 luglio 1943, gli alleati sbarcarono in Sicilia con l’operazione dal nome “Husky”. In realtà le due fazioni si divisero sapientemente il compito tra americani ed inglesi, per stringere in un maglio le forze nazi-fasciste. A leggere degli storiografi, le cose non andarono proprio lisce come l’olio. Ma si apriva la lunga estate calda con la lenta ma inesorabile presa della nostra nazione, con conseguenti e noti avvenimenti politici fagocitati dai successi militari. Tutto ciò ebbe il privilegio di restituire un briciolo di speranza ai sopravvissuti di quella ecatombe senza fine. Ma per ciò si rimanda a specifici testi storici.

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